STEM girls – Redooc a Tempo di Libri
Il 19 aprile 2017 Redooc alle 16:30 è a Tempo di Libri (Sala Caffè Garamond, Pad.4) per la presentazione del libro “Le ragazze con il pallino per la matematica”, edito da Libromania. Dedicato a tutte le bambine e bambini, ragazze e ragazzi, donne e uomini.
Ecco il titolo della presentazione a Tempo di Libri: STEM Girls: parità di genere e percorsi di studio e di lavoro nel mondo delle tecnologie
STEM Girls: parità di genere e percorsi di studio e di lavoro nel mondo delle tecnologie
Digital Happy Hour – conversazioni con autori ed editori su inclusione sociale e culturale in tempi digitali
Giovanna Pezzuoli, curatrice del libro 100 donne contro gli stereotipi della scienza (Egea)
Chiara Burberi, autrice di Le ragazze con il pallino per la matematica(Libromania e Ceo Redooc)
Luisa Pronzato, giornalista del Corriere della Sera e della 27esima ora
Annamaria Berto, Technology Solution Professional Microsoft Italia
Modera Karen Nahum (De Agostini)
Acquisire competenze scientifiche, tecnologiche e digitali è diventato sempre più importante, per tutti ma in particolare per le ragazze, per affrontare con successo le sfide che il mondo del lavoro pone oggi alle giovani generazioni. Tre autrici, che hanno affrontato questo tema nei loro libri, presenteranno il loro punto di vista e una giovane professionista testimonierà l’importanza della formazione scientifica per il suo percorso lavorativo.
Vi aspettiamo a Tempo di Libri il 19 aprile 2017 alle 16:30 presso la Sala Caffè Garamond, Pad.4.
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Introduzione al libro “Le ragazze con il pallino per la matematica”
Le astronaute mancate e altre silenziose. Un libro di matematica contro i super uomini
Nicola Palmarini, autore de Le Infiltrate
Dicono che entrando alla NASA ci sia un cartello che reciti: “Vuoi fare l’Astronauta? Allora studia matematica, matematica e poi ancora matematica”. Decisamente diverso dall’ideale romantico e machista che Hollywood ci ha sempre raccontato. Un ideale di super-uomini capaci di sopportare forze centrifughe nell’ordine dei 5G, allenarsi all’assenza di gravità in piscine gigantesche, abituarsi al buio e alla solitudine in una caverna del Nevada. Prima di arrivare a quel punto, matematica, matematica e matematica. Non servono altre qualità. Non serve essere un cowboy a passeggio tra le stelle, basta il cervello. E quello, verrebbe da dire “incredibilmente” per come la società ci ha abituati, appartiene dalla nascita a entrambi i generi. Parlare di cosmo e di astronauti è un trucco facile per far emergere in maniera incontrovertibile uno degli stereotipi a cui siamo stati esposti da bambini. Fare l’astronauta è (sempre stata) una roba da maschi. E quando Sally Ride divenne la prima (e anche più giovane) astronauta nel 1986, esattamente venticinque anni dopo il primo uomo nello spazio, avremmo potuto tranquillamente andare avanti a credere che sarebbe stato per sempre così. Il fatto è che dietro a quel credo si nascondeva uno stereotipo se possibile ancora più pericoloso perché più subdolo. Il sillogismo è chiaro: se l’astronauta è un mestiere da uomini, allora anche tutto quello che lo riguarda – per definizione – lo è. Meccanica dei fluidi, meccanica razionale, aerodinamica, chimica per l’ingegneria aerospaziale, elementi di astronomia e astrofisica, impianti e sistemi aerospaziali, impianti elettrici di bordo e, naturalmente, introduzione alle equazioni differenziali. A prima vista non-roba-da-donne.
Tuttavia se mai avessimo avuto voglia di leggere con attenzione tra le righe della storia della corsa allo spazio qualche grinza l’avremmo notata. E avremmo scoperto che se non fosse stato per un numero enorme di mai abbastanza citate, mai abbastanza riconosciute, mai abbastanza considerate scienziate che hanno lavorato sotto traccia ai vari programmi missilistici nel corso del Secolo scorso, la corsa allo spazio che abbiamo celebrato come una delle conquiste paradigmatiche dell’intelligenza dell’uomo, forse avrebbe avuto un decorso decisamente diverso. Definire come “sotto traccia” la considerazione di cui (non) hanno goduto queste scienziate non è un eufemismo. All’incapacità di riconoscere i loro meriti vanno aggiunte le conquiste dell’evoluzione sociale che abbiamo velocemente dimenticato forse perché piovuteci in dono come fossero la conseguenza naturale di una raccolta punti e non associati alle battaglie di molti e molte prima di noi. Alla NASA le donne non venivano ammesse nelle sale di comando, quelle di colore addirittura segregate in un edificio a parte. Il primo film che racconta una di queste storie, è uscito negli Stati Uniti nel gennaio del 2017. Ci sono voluti sessant’anni, anno più anno meno, perché qualcuno si accorgesse di qualcosa. Perché qualcuno raccontasse qualcosa. Una progressione terribilmente lenta. La stessa che sembra ancorare le donne alla possibilità di raggiungere la parità salariale – una delle diseguaglianze più assurde e paradossalmente misconosciute – tra 1181 anni (sempre che nessuno decida di spostare un’asticella da qualche parte e rimettere in discussione anche questa lontanissima data). La stessa che vede crescere il numero di delegate al World Economic Forum di Davos di poco meno del 3 percento da un anno all’altro nonostante tutti gli strepiti sollevati dalle partecipanti nell’edizione del 2016.
Potremmo elencare altre decine di dati e sicuramente faremmo del bene alla “causa”, ma non basta, non è sufficiente. In primo luogo perché credo sia arrivato il momento di levare dallo sfondo il concetto di “causa”. È necessario far capire che la mancata partecipazione delle donne alle professioni che stanno ridisegnando la geografia delle relazioni interpersonali, delle forze economiche e politiche, degli investimenti energetici, del concetto di trasporto, delle modalità di cura – in altre parole il presente e il futuro dell’umanità e che abbiamo riassunto nell’acronimo STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics) – ecco quella mancata partecipazione è un rischio troppo grosso non tanto e non solo per le donne, lo è per il futuro dell’intero genere umano. Un futuro che, da sempre disegnato dagli uomini, ha mostrato e mostra oggi più che mai tutti i suoi limiti di interpretazione, respiro, visione. Quella della mancata partecipazione femminile alla scienza e alla matematica, ma ancora più alla tecnologia e all’ingegneria più “hard” non va sottolineata per rivendicare una “causa”, va contrastata per prometterci un futuro. Per spiegarci che è necessario. Per convincerci che sia possibile. In secondo luogo abbiamo il compito, anzi abbiamo il dovere di fare di più oltre che semplicemente indignarci e poi tornare alla nostra routine. Abbiamo l’obbligo di uscire dallo schema della festa di compleanno datata otto marzo. Quel giorno deve diventare lungo un anno e poi ancora un anno e l’anno successivo e lungo questo percorso sfruttare ogni occasione possibile per coinvolgere e convincere le donne in primo luogo, non dimenticando gli uomini al loro fianco che a mio avviso sono il primo pubblico a cui suggerire la lettura di “Le ragazze con il pallino per la matematica”: senza la loro partecipazione i tempi si dilaterebbero all’infinito. Sono loro in quanto padri, manager, imprenditori, colleghi, ricercatori, docenti l’acceleratore forse capace di velocizzare un processo che abbiamo visto, altrimenti, svanire all’orizzonte. E il tempo non gioca a nostro favore. Intendendo noi, umanità, con quel “nostro”.
Il libro nasce prima di tutto dall’amore per la scienza che ha portato Chiara Burberi a fondare redooc.com, una specie di isola felice dove una materia antica tanto quanto il pensiero si trasforma in un gioco capace di sfruttare il polimorfismo del digitale e accogliere le ragazze e i ragazzi nelle confuse e a volte poco invitanti acque dell’educazione di base della matematica. Nasce dalla frustrazione data dalla certezza della possibilità mancata e dallo sguardo disincantato delle opportunità non colte, come un fiore lasciato appassire in una giornata d’agosto. Nasce, anche e soprattutto, dalla lucida e contemporanea consapevolezza dello scenario storico, sociale, politico, educativo, lavorativo e dalla necessaria urgenza nel scardinarlo. Lucida perché la loro esperienza ha permesso di identificare una struttura narrativa perfetta sia nell’identificare e collegare la trama di storie capaci di dare un senso di ricchezza compiuta al panorama che riguarda le donne nello STEM (e soprattutto a quello che si nasconde dietro a quel panorama), sia nel dare loro un taglio divulgativo senza perdere di vista la necessaria profondità. Contemporanea perché usa un linguaggio di cui si sentiva il bisogno sul tema donne e scienze. Le loro parole sono le parole delle donne che hanno conosciuto, incontrato, intervistato, donne con cui hanno condiviso non solo la storia, ma la vita che si coglie tra le righe della storia. Il loro format-ad-abstract, una vera astrazione e distillazione di parole, concetti, sensi, visioni è un meccanismo straordinariamente efficace per permetterci di capire che l’eccezionalità, il più delle volte, si nasconde nelle pieghe della più assoluta normalità: di capire chi siamo, cosa davvero vogliamo, che idea abbiamo di “successo” e – ancor più – quanto davvero valiamo. Una delle molte ricerche sul tema del perché le donne abbandonino le professioni o gli studi (di ingegneria su tutte) cita, oltre a fattori quali la mancanza strutturale di esempi o l’abusato work life balance, la disparità di trattamento subito nel lavoro di gruppo. Alle donne vengono tipicamente assegnati compiti più facili da risolvere, ruoli di routine, non volendo poi contare i casi di sessismo e una – a volte subdola a volte esplicita – emarginazione ex-ante su chi sappia fare cose serie (i ragazzi) e chi no. Napalm infuocato sull’autostima delle ragazze del pianeta. Il lavoro di Chiara Burberi e di Luisa Pronzato, sfruttando il racconto di chi ha fatto (e ci tengo a dire non che “ce l’ha fatta”) guida la lettrice e il lettore a capire dove si trovi il valore di ciascuna, dove la possibilità del capire equazioni complesse sia solo limitata dal nostro stesso pregiudizio, dove il concetto “non è roba per me” venga ribaltato dai punti di vista di donne che fanno, “semplicemente” fanno e con la testimonianza del loro sé diventano non solo un cicatrizzante per le ferite all’autostima, ma un modello di riferimento, una rotta nell’Oceano, un viaggio verso l’opportunità. Di potercela fare, appunto.
A Chiara Burberi e Luisa Pronzato va riconosciuto l’aver messo in campo un senso d’urgenza indispensabile, necessario, disincantato. Un conto è dire: “Il futuro è donna”, altra cosa è dire il quando. Quanto ci vorrà perché gli effetti generati da libri e iniziative come la loro possano dirsi un trend e non una eccezione? Possiamo davvero permetterci di aspettare, come cita nella sua intervista la Mori, “un paio di generazioni perché cambi davvero” per vedere qualche effetto tangibile come aule di ingegneria aerospaziale colme di donne, raddoppiare le under 30 nella classifica di Forbes oltre alla categoria delle (benedette) “imprese sociali” o anche solo avere assegnati gli stessi task dei loro colleghi maschi nei Summer Quarter di qualche Università dove si insegna STEM? Nel lavoro delle autrici non c’è nessuna falsa illusione, c’è invece, ben chiara, l’idea che la strada da seguire per aggredire il tempo e, metaforicamente, impedirgli di dilagare, sia spiazzarlo con uno sguardo in grado di leggere il futuro raccontando il presente e contestualizzando il passato: la fame di storie, del racconto di vittorie e fallimenti, di dolorose sconfitte e insperabili rinascite, di esempi a cui poter attaccarsi come si trattasse di una sorgente vitale, è qualcosa di cui c’è un disperato bisogno, così come di mentor capaci di smontare le regole del pregiudizio sociale e prendere la mano di lettori e lettrici conducendoli in un luogo dove potersi dire: “Perché no? Perché non io? Perché non adesso?”. Per tutte queste ragioni chiamare “libro” il lavoro di Chiara Burberi e Luisa Pronzato è sinceramente riduttivo. Tutta la sua architettura lascia già pregustare il sapore di una messa in scena per il teatro dove potersi confrontare dal vivo – viso a viso, voce a voce, esperienza a esperienza. Del resto sarebbe altrettanto errato definirlo genericamente un “progetto”: siamo pieni di progetti. Eppure del “Progetto”, la “P” maiuscola è un accento d’obbligo, ha tutte le caratteristiche perché una volta arrivati in fondo vi direte: “Raccontamene un’altra”.
E tutto mi lascia credere (o forse sperare) che la storia di queste storie sia solo all’inizio: non sarà un editore a definirlo, saranno le donne e gli uomini che le leggeranno a determinarlo.
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